1. La Moreno (che tutti sanno chi è) per Pirandello e Ciascuno a suo modo
La prima volta che lessi ‘Ciascuno a suo modo’, l'ultima commedia della trilogia del Teatro nel Teatro, avevo sette anni e mi trovavo sospeso nel vuoto a due metri di altezza. L'avevo scoperto nello scaffale più alto dello sgabuzzino, dietro gli scarponi da sci, insieme ai romanzi di Malaparte, Lawrence e Allan Poe. Il libro rilegato in verde era dietro a una guida Hoepli all'allevamento dei polli annotata da mio padre che, per quel che sapevo io, era sempre stato un Ispettore Generale delle Finanze (?). Mi chiedo oggi se la collocazione di quel dramma pazzesco tra scatole e bauli sigillati, fosse casuale o decisa dai miei genitori. Al momento sentii che leggerlo era un peccato. In quell'ultimo ordine di scaffali trovai tutte le commedie del Teatro nel Teatro di Pirandello e un racconto terrificante dove una donna vedeva i briganti giocare a bocce con la testa tagliata di suo marito. Cercai in quella raccolta intitolata ‘Maschere Nude’ un Pulcinella senza mutande, ma trovai solo una foto in divisa di mio zio Annibale con i baffi e un cannone e la nota che il capitano Rosati faceva parte delle SS italiane ("Signor maestro cosa sono le SS? Mio padre non lo sa."). Scoprii anche un libro di Jung ‘II problema dell'inconscio nella psicologia moderna’, che sentii magnetico anche se non ne compresi una parola.
Lessi ‘Ciascuno a suo modo’ con la nuca che spingeva contro il soffitto, la punta di un piede sull'armadietto delle medicine e premendo l'altro contro la parete dove rimase il segno della scarpa come un timbro. Quando scesi a valle mi girava la testa. Un Mago assai affettuoso mi diceva che avrei dovuto togliermi il nome di Annibale, quello di mio padre e quello di mio nonno, se non volevo morire. Dovevo farlo subito. Accettai il consiglio. Scelsi Ottavio perché cominciava e finiva con la O ed era una protezione. Sentivo che a casa tutti mi avrebbero fatto la guerra.
La commedia vera e propria scivolo via dalla mente come acqua. Ma rimasi affascinato dalla Premessa e da tutte le pagine in corsivo degli intermezzi, con le reazioni del pubblico finto e la ribellione dei veri protagonisti dello scandalo riflessi nella commedia a chiave. Per meglio capire quel clima festoso di imprevisti e schiaffi all'autore mi costrinsi a rileggere la commedia vera e propria con la sua tormentosa storia d'amore, ma fu noioso come fare i compiti per scuola. Le pagine della Premessa invece erano eccitanti come una partita di pallone. L'idea poi di stampare un finto manifesto e un finto giornale della sera mi sembrò meravigliosa e degna del grande signor Kryptikliz, un personaggio imprevedibile che dava sempre filo da torcere a Batman e Robin nei loro fumetti. Naturalmente non conoscevo il futurismo né l'archetipo del trickster e, non essendoci televisore in casa mia, non riuscivo a paragonare quel clima teatrale a niente altro di mia conoscenza se non a una marmellata di eventi a sorpresa presi qua e là. Come i fuochi artificiali, il cartone animato di Bux Bunny trasformista e quella volta che a San Pietro tra lo stupore della folla era improvvisamente comparso il Papa su una portantina con piume. Mentre leggevo e rileggevo mi batteva il cuore dall'eccitazione. Sentii il bisogno di scendere a procurarmi un biscotto e un formaggino. Quando mi arrampicai di nuovo sugli scaffali, senza fare troppo rumore, e piantando le unghie su una vecchia coperta, ebbi per un attimo paura: e se qualcuno nel frattempo avesse fatto scomparire il libro o l'avesse cancellato? E se tutto fosse stato un sogno, come quello in cui stavo guidando l'aeroplano? Per fortuna quel libro verde era sempre lì. Mentre rileggevo quella commedia da recitare in mezzo alla strada, sentivo il bisogno di appoggiare la fronte alla lampadina calda che pendeva dal soffitto. Alla fine mi scottai la pelle e i miei genitori non capirono mai come.
2. Trent'anni Dopo
Trenta anni dopo era il cinquantesimo anniversario della morte di Pirandello. Io facevo il regista di psicodrammi. Ormai sapevo il significato di Maschere nude: che la finzione del teatro può dire la verità.
Durante un viaggio a Torino per la presentazione del primo volume del Manuale di Moreno, Santuzza Papa, una delle mie più care colleghe e amiche, mi portò a vedere il teatro Carignano.
"Speriamo che non sia chiuso", disse.
"Sta tranquilla. Vedrai che entreremo".
Era uno dei teatri più belli che avessi visto in tutto il mondo. I palchi avevano cariatidi d'oro con lampioncini a globo. La sala era ampia ma pure raccolta: un prodigio. Me ne innamorai perdutamente. "Dobbiamo farci qualcosa dentro", dissi. "Per piacere". Lo percorrevo da un capo all'altro e mi arrampicai di corsa fino all'ultimo ordine dei palchi. Speravo che il portiere non mi sentisse salire.
"Chiamiamo Zerka Moreno", disse Santuzza, per uno spettacolo come quello che abbiamo fatto al Flaiano".
Parlava di uno psicodramma su Questa sera si recita a soggetto che Squarzina aveva ospitato al Teatro di Roma tre anni prima: il primo avvenuto in un teatro italiano.
"Qualunque cosa", risposi, "qualunque cosa". Ma ciò che vedevo erano i salotti, i ridotti e i palchi giusti per mettere in scena Ciascuno a suo modo. Era così che me li ero sempre immaginati. Andammo dietro le quinte. Annusai il sipario. Nel palco di proscenio raccolsi un pezzo di cordone dorato e me lo misi in tasca.
Ricordai la gag di Zerka Moreno, appena sbarcata al Flaiano. (You did it), la storia di un uomo che ha chiesto la strada per andare a un certo posto e si sente rispondere No. Da qui è impossibile andarci.
Le ricerche di Boussy e Fulchignoni confermavano la mia convinzione che la protagonista della commedia 'la Moreno (che tutti sanno chi è)' fosse un segreto riferimento di Pirandello all'inventore dello psicodramma. Emerse che il critico trasformato in personaggio era torinese e che il titolo della commedia era stato preso dal campanile di Coazze. Perciò rappresentare a soggetto Ciascuno a suo modo - in quella città, in quel teatro e in quell'anno - significava riportare allo psicodramma un testo che aveva portato lo psicodramma al teatro. Avremmo fatto incontrare Moreno e Pirandello. Zerka, la vera Moreno, avrebbe giocato il ruolo della Moreno. Pier Luigi Pirandello, il ruolo di suo nonno che in Ciascuno a suo modo è presente come personaggio-autore, dietro le quinte nei camerini dove lo va a cercare la Moreno.
"Che bel giochetto", disse Fernanda Pivano quando glielo raccontai, "ma perché proprio a Torino?".
"Perché la storia della commedia parte da Torino e deve tornare a Torino. Sennò che gioco è".
"Tanti auguri", rispose.
Decidemmo di fare le cose in grande. Tutte le società di psicodramma della città si sarebbero federate con quelle di Roma e di Alessandria. Ai piemontesi l'idea di superare discordie teoriche e rivalità fraterne, per far arrivare la mitica Moreno da New York,
sembrava piacere. "Su queste cose di unità nazionale", mi dissi, "ci sanno proprio fare".
L'idea piacque anche a un'associazione locale di gruppoanalisi che interpellammo per il comune riferimento al lavoro nei gruppi. La presidentessa sembrò entusiasta di unirsi al progetto degli psicodrammatisti. Un mese dopo, II Manuale di Moreno era presentato al Piccolo di Milano da De Monticelli. Lei ci invitò tutti a Torino a casa sua. Era una bella casa. Disse: "Ne parlerò a Ugo". Ugo era suo cognato ed era anche il direttore del Teatro Stabile di Torino. Noi altri lo chiamammo sempre Gregoretti. Ugo Gregoretti apprezzò il mio progetto e lo affidò al Centro Studi dello Stabile per la realizzazione. Fui molto grato alla signora, che lavorava anche in una USL, di aver fatto da tramite con un ente pubblico. Con gli enti pubblici aveva molta familiarità. Usciti dagli Uffici di Piazza Castello, brindammo tutti da Mulassano.
"Ha fatto caso", dissi pagando il conto, "che le iniziali del Suo nome di battesimo sono le stesse de 'la nota attrice A.M.', nella commedia?",
"Già, che buffo", rispose.
"Cin, cin", fece Santuzza toccando i bicchieri.
"Cin, cin!".
Giulio, Donata, Giancarlo, Donatella, come decani dello psicodramma, fecero altre proposte per la rassegna. Ognuno di noi, in omaggio a Moreno, avrebbe scelto un luogo della città dove dirigere un laboratorio aperto al pubblico. In omaggio al relativismo di Pirandello ognuno avrebbe pianificato il lavoro di gruppo a suo modo, secondo la propria prassi analitica. La Moreno, prima dello storico incontro al Carignano, avrebbe tenuto un sociodramma sul lavoro, negli stabilimenti abbandonati della Fiat. Forse, alla presenza della Moreno a Torino qualcuno ci teneva per la legge sull'ordine degli psicologi. Ma francamente io sognavo la Moreno al Carignano per l'anniversario di Pirandello e per l'odore di quel sipario. Pensammo che questo relativismo era quello di Ciascuno a suo modo. Ci sfuggì che la commedia non celebra le virtù del pluralismo democratico ma la catastrofe del senso comune.
"Una commedia", mi aveva detto Giuliano Scabia, "è sempre una cosa viva. Può saltarne fuori di tutto". E così accadde. Ma perché quella trama si attualizzasse davvero fu inevitabile che nella città si cristallizzasse lentamente una bava di scandalo. E che ci fossero molte versioni dello scandalo. E che, la nota attrice, causasse un suicidio (il suicidio della prima versione della rassegna). E che l'ingresso della Moreno al Carignano fosse uno scontro, non una festa.
Stavamo caricando una bomba ad orologeria, convinti di maneggiare un carillon.
Lo scandalo e il suicidio avvennero così. Eravamo ad aprile. La rassegna era fissata per settembre. Cominciò la fase esecutiva sotto l'egida della Regione, e vari assessorati. Banche e Istituti finanziari promisero e garantirono i necessari finanziamenti. Tutti lavoravano in ruoli diversi da quelli abituali. Fatica. Buona volontà. Corsa contro il tempo.
Dopo il programma ufficiale della rassegna cominciai a scrivere il testo della riduzione psicodrammatica di Ciascuno a suo modo. Intanto le pubbliche relazioni con gli enti vennero assunte vivacemente dalla società di gruppoanalisi. O meglio, dalla sua presidentessa che sapeva farsi obbedire e forse, per non distrarmi dal mio lavoro, pensò di triplicare i preventivi, senza nemmeno dirmelo. Forse per la stessa ragione usò sempre la carta intestata della sua associazione. Tanta delicatezza ci colpì; noi psicodrammatisti non ne saremmo stati capaci.
Proseguiva un fitto scambio di telefonate, plichi e buste tra Roma e Torino. Una rete. Ormai riuscivo a lavorare solo per la rassegna. Eseguii diligentemente istruzioni di A.M. su un possibile sponsor: finalmente una signora sua amica mi fece balenare l'attraente possibilità di mettermi in contatto col giardiniere di Pippo Baudo, che era anche lui medico. Lasciai perdere: stavano finalmente processando Verdiglione e io non sono medico. Cominciai a prendere lezioni di tennis. Emerse subito che ero debole nel rovescio.
Come mamma del nipote di Ugo Gregoretti, A.M. annunciò improvvisamente che suo figlio avrebbe girato un film sul sociodramma della Moreno. Nelle fabbriche abbandonate, per conto di non so che circolo di industriali. "Perché no?", dissi agli amici. "Se agli industriali la sera fa piacere vedersi il documentario della vecchia americana nei loro capannoni chiusi". Per amore del teatro Pirandello era andato ad Hollywood. Noi altri potevamo anche andare in video-tape.
A.M. si dava da fare. Avanzò altre proposte: proporre ai suoi didatti un workshop di supervisione, aprire tanti laboratori di gruppoanalisi nei saloni affrescati delle grandi banche della città.
"Ma come", disse Donatella, "il sociodramma nelle fabbriche abbandonate e la gruppoanalisi nei salottoni della San Paolo?"
"Meglio così che il contrario", risposi.
Vivendo nella stessa città, i miei colleghi davano segni di insofferenza. Io però pensavo sempre al Carignano. Li invitai ad aver pazienza. "Sei un vero vulcano di idee", mi disse A.M..
A loro disse che forse non ero poi così indispensabile. Cominciò il gioco dellio dico che lei dice che tu non hai detto che io dicevo... Essendo tutti esperti di gruppo fu giocato ad alto livello.
Ci fu solo una cosa, una piccola cosa, che A.M. non riuscì ad ottenere né da me né dagli altri psicodrammatisti, ai quali cercò sempre in ogni modo di nasconderla.
Non ottenne di occuparsi personalmente dei manifesti della rassegna.
Lei intendeva concepirli a suo modo, piazzando al centro non un'immagine di Pirandello o di Moreno, ma il simbolo ingigantito della sua associazione. ("Verranno bene, vedrai. Stai tranquillo"). Questo, non il resto, fu il pomo della discordia. A.M. non era una persona di teatro e questo rifiuto, oltre che infame da parte mia, le parve incomprensibile. Se ne sdegnò. Minacciò, blandì, mentì. Fece di tutto. Cercò anche di scendere a patti, crollò, pianse o finse di piangere: "È il minimo che potresti fare per venirmi incontro", mi disse. "Lo sai che a furia di andare a cene di rappresentanza, in un mese sono ingrassata di cinque chili? Cinque chili per il tuo progetto! Come fai a negarmi questa piccola cortesia?".
Gliela negai. Avvisai anche gli altri e gliela negammo tutti quanti insieme. Lei uscì precipitosamente dalla stanza essendosi appena ricordata di un appuntamento. Noi altri montammo in macchina e andammo a chiedere un'idea per il manifesto al maestro Eugenio Guglielminetti, scenografo del TST, che fu di una gentilezza squisita. Quando gliela comunicai, ad A.M. questa iniziativa, oltre che scorretta, parve assurda. Non mi aveva forse informato che Guglielminetti in quei giorni era fuori Italia? Fu come se la regina avesse sorpreso Alberto Sordi a mangiare filetti di baccalà sul trono del Savoia.
"Sono molto sconfortata", mi disse per telefono A.M., mentre il taxi per l'aeroporto mi chiamava col clacson, "della volgarità di questo vostro passo, Rosati. L'iniziativa è stata tua. Lo so. È troppo. Hai passato il segno. Ho provato a essere civile anche con te. Ma tu non sai proprio vivere. Qui sei a Torino ricordati, non a Roma. Cosa? Che c'entra il doppio legame? No. Non va. Non va. E io che volevo cercare di porre rimedio al tuo errore. No. Non è possibile! Che puoi saperne tu di tutti i retroscena? Se avevo detto che Guglielminetti non era in città è perché ci sono tante cose delicate del teatro e di Ugo che non potevo dire in pubblico. Basta. Del resto sono stanca e ho anche un appuntamento. Vengo! Vengo! Con le banche non muoverò più un dito. Vi farò chiudere in faccia tutte le porte".
E se l'avesse fatto davvero?
Lo fece. Nel giro di una settimana le porte si chiusero tutte. Si chiusero anche le bocche. Mi si chiuse lo stomaco. Si chiuse la città.
Era la fine di luglio. Tornai a Roma. A.M. mandò a tutte le associazioni una lettera indirizzata al Teatro Stabile di Torino. Era un ultimatum dove proponeva al TST, come condizione per proseguire, di essere lei ad assumere personalmente la direzione della rassegna. Negli indirizzi per conoscenza erano tutti dottori, io nemmeno signore.
Impossibile accettare. Impossibile proseguire. Fu la catastrofe dell'intesa organizzativa. Gli amici di Torino ci rimasero malissimo. Ma videro anche arrivare la fine di un incubo urbano che si era fatto sempre più faticoso e invischiante.
Chiesi un prestito alla banca per pagare un'enorme bolletta del telefono e chiesi consiglio agli amici. Enzo Forcella sorrise del mio memoriale di cento pagine, mi parlò della differenza tra vissuto e rappresentato e dettò la lettera di risposta. Scoprii che A.M. al Teatro Stabile, la sua lettera non l'aveva spedita ma solo indirizzata. Feci una fotocopia e gliela mandai io. Così dovettero rispondere.
Risposero, dicendole di no e confermando l'impegno assunto con noi altri. Le sovvenzioni però si erano dileguate e non solo l'entusiasmo, anche l'energia.
Pier Luigi Pirandello, come avvocato e come nipote, sconsigliò di far causa. Fece generosi paralleli con fattacci capitati al nonno e in mezz'ora trovò anche un raffinato sponsor di incoraggiamento. Partii per la settima volta per Torino.
Passai, come sempre, ad annusare il Carignano e raggiunsi il Centro Studi. Chi non era partito per le vacanze stava facendo la valigia e, tranne Pietro, che mi offrì un cremino a forma di pinguino da Pepino, tutti cominciarono a tenermi d'occhio come un revenant. Non avevamo tutti i torti. Avevo suicidato la rassegna per salvare una locandina e ora pretendevo di rinascere con altro sangue umano. Senso di colpa. Destrudo. Confusione. Che fare?
L'assessorato alla cultura stava andando in vacanza con la conferenza stampa per la prossima stagione. Pietro mi invitò senza darmi consigli. Sapevamo che avrei incontrato A.M..
Mezzogiorno di fuoco a piazza San Carlo. Il lungo salone vibra di chiacchiericcio e pettegolezzi. Fotografi, presidenti, cocktails. Arriva Giancarlo Cobelli. Applausi. Arriva Ugo Gregoretti. Applausi. Arriva A.M..
Noto con piacere che anche lei mi ha puntato immediatamente: se io sono un revenant, lei non ha una bella cera. Porta sandali a rete di plastica. "Coraggio", mi dico, "Fatti sotto. Fa qualcosa. Fa la pace. Fa finta di essere nel salotto di Donna Livia Palegari". È davvero il primo atto di Ciascuno a suo modo. Persino i saloni, simili a una cappella, sono quelli:
"Ma che ne pensa Lei?"
"Che ne penso? Non saprei. Cosa ne dicono gli altri?"
"Ma! Chi una cosa e chi un'altra"
"S'intende! Ciascuno ha le sue opinioni"
"Ma per quello che ne sa?"
"Caro amico, non si sa mai tutto".
Avevo con me il registratore da tasca ma non il microfono a spillo. Perciò mi portai dietro come testimoni, Pietro e Piero, i direttori del Centro Studi. Mi avvicinai al buffet. Facevo finta di niente ma mi tremavano le gambe. Era evidente che il mio era un ultimo tentativo di intesa. Parlammo, fingendo una viva neutralità. Maschere coperte. Ci portarono su un balconcino nell'illusione che gli invitati non sentissero le nostre voci, sempre più vive, sempre meno neutrali. Di manifesti sembrava che A.M. non avesse mai sentito parlare prima in vita sua.
"Ma no. Figurati. Il progetto era bellissimo", disse, "solo che noi della gruppoanalisi, non siamo ancora pronti. Ci serve più tempo. Settembre poi non è la data giusta. Tu non sai come sono fatti i torinesi: si sentono ancora in vacanza e non escono di casa per andare a teatro. Bisognerebbe rimandare tutto a gennaio". Sorrideva. Si spostò piano piano sopra lo scalino del balcone. Glielo feci notare. Disse che non credeva al linguaggio del corpo. Sorrise ancora. Scese.
"Ma a gennaio' risposi, "saremmo fuori dell'anniversario di Pirandello".
"Pirandello", fece lei. "è sempre di attualità!".
"Ma a gennaio", dissi io, "la Moreno non può più venire in Italia".
"Se la Moreno non può a gennaio", rispose, "facciamo venire quell'altra lì di Londra, com'è che si chiama?..."
"Io non credo più alle mie orecchie", commentò Piero.
"Posso solo dire che l'accaduto non ha giovato all'immagine pubblica della signora", commentò Pietro.
Con quella conferenza stampa il TST chiudeva per le vacanze. Ci salutammo senza sapere cosa sarebbe accaduto. Anche gli amici psicodrammatisti partirono tutti senza aver riunito le fila. Era il tarocco dell'impiccato. Mi impegnai a non prendere iniziative prima del loro ritorno a settembre. Se non altro, si era chiarita la situazione. Era una situazione catastrofica. Mesi di lavoro andavano in fumo. Zerka Moreno, secondo gli impegni presi, sarebbe arrivata a Torino il 15 settembre dal Congresso Internazionale di Zagabria. Per fare che?
A Roma Gianni Montesarchio aveva seguito tutto, come amico e come gruppoanalista, come napoletano e come psicodrammatista. "Se davvero lo vuoi fare questo spettacolo", mi disse, "bisogna che non muori entro Agosto". Mi costrinse a partire in barca con lui e Maria Teresa avvisandomi che avrebbe tenuto lui la chiave della radio e che in mare non avrei trovato telefoni a gettone. Dieci giorni di vacanze potevano corrispondere a un intermezzo corale di Ciascuno a suo modo. Portai con me tutte le foto e gli articoli sulla commedia scoperti nel grande archivio del TST.
Ci imbarcammo a Napoli. Uscendo dal porto, guardavo la speculazione edilizia del golfo e mi sentivo sempre a Torino.
Mi accuccio a poppa. Piede a mollo. Se fumassi fumerei.
Di chi è la colpa? Della commedia o delle persone?
Guardavo scorrere l'acqua del mare sempre meno sporca. Nelle ultime macchie di nafta ci vidi Titina de Filippo come Filumena Marturano. Raccontava la storia di quando Filumena, ragazza, resta incinta e corre a parlare alla Madonna d'e rose:
C'aggi' 'a fa? Tu saie tutto... Saie pure pecché me trovo int' 'o peccato.
C'aggi' 'a fa? Sto parlanno cu te! Rispunne!
"E figlie so ffiglie"
Me gelaie. ...Forse si m'avutavo avarrìa visto o capito 'a do' veneva a' voce: 'a dint' 'a na casa c 'o balcone apierto... Ma pecchè proprio a chistu mumento ...È stata 'a Madonna! S'è vista affruntata a tu per tu, e ha voluto parla... Ma, allora, 'a Madonna pe' parla' se serve 'e nuie!
Per parlare si serve di noi... la commedia, mi dissi, come la Madonna d' 'e rose.
Più tardi, in alto mare, alle tre del mattino una bella psicosociologa, che si era imbarcata con noi, mi disse esattamente il contrario, in un linguaggio freddo come quella notte:
"L'aborto della rassegna di Torino è l'inevitabile disastro di un'intesa equivoca. Le motivazioni dei diversi gruppi non erano state chiarite e i veri interessi sono emersi solo dopo. Tanto più che, in casi come questo, lo stile torinese è di non parlare mai esplicitamente di soldi, ma solo dell'onore. Del resto, in qualunque gruppo di gruppi ogni ideale di pseudo-democrazia è falso. Non funziona mai. Nemmeno tra psicologi. Anzi tra psicologi è peggio".
Le spiegai l'idea del testo teatrale vivente, che, come la Madonna d' 'e rose, parlava servendosi delle persone.
"L'onnipotenza di una commedia? Una pseudo teoria per salvarti la faccia. Sarebbe successo lo stesso anche con La Locandiera. In realtà hai avuto paura di assumere la leadership in modo esplicito", disse con un filo di tenerezza.
La ascoltai cercando di reggere il timone e stringendomi nella giacca a vento. Non condivideva nemmeno il mio entusiasmo per le teorie della Selvini Palazzoli. Come se non bastasse la psico sociologa si chiamava - lo giuro - Maria Rosa.
3. Spesso a Cuori e Picche
Due settimane dopo, il giorno in cui riapriva il Teatro Stabile, ero all'aeroporto all'alba. Mi portavo dietro da Roma persino il monitor del PC con le batterie ricaricate. Guardando saltare i delfini dal mare, avevo detto a Gianni: "Lo psicodramma della Moreno si farà. A costo di farlo in mezzo a una piazza". (Pensando: purché sia piazza Carignano).
Gli amici furono sempre più generosi. Si rinsaldò faticosamente l'unità. Mariangela e Mimmo non solo dovettero mantenermi ma cercarono spesso di farmi cenare con belle ragazze (Santo Groddeck. Non ho testa per queste cose: sto portando avanti la gravidanza, come Filumena). Santuzza, di nascosto, mi infilava soldi nelle tasche dei pantaloni. Si diffuse lentamente uno stato irresistibile di innamoramento per il teatro e gli psicodrammatisti agirono e reagirono.
Torino era ancora mezza evacuata per le vacanze. Arrivarono un po' alla spicciolata le lettere delle banche più cortesi, spiacenti di dover disdire i finanziamenti. Le altre nemmeno scrissero. Una mattina Wanda, Mimmo e io scendemmo velocemente dalla cinquecento in piazza san Carlo, col volto tirato. Era la mezza e avevamo quasi un'ora di tempo: "Allora siamo d'accordo: tu vai alla BNL, tu al Medio Credito. Io prendo il banco di Sicilia. Regolate gli orologi. Ci rivediamo alla mensa comunale, Buona fortuna".
La spontaneità doveva sopperire alla mancanza di formalizzazione e di strutture. Per degli psicodrammatisti fu un'appendice del training: imparammo il valore della spontaneità ma anche i suoi limiti.
"Io sono sempre per la politica dei Cento Fiori", disse Ugo Gregoretti per telefono, aprendoci il teatro, che però restò mezzo chiuso per ferie.
Al disastro finanziario si aggiunse una serie di incidenti e di piccoli guai: i macchinisti erano in vacanza con le chiavi dei magazzini delle scene, il computer si guastò cinque volte di seguito, persi un dente, e due diottrie per occhio. Avevamo chiesto ai gemelli Crucitti di interpretare sulla scena Pirandello e il suo doppio ma durante le prove persino loro sembravano differenziarsi sempre più.
Cominciai a pensare che Torino era una città dove il formalismo sabaudo dei rapporti era compensato da una proliferazione segreta di pratiche magiche. Mi sorpresi a immaginare che tarocchi e macumbe alla gianduia sabotassero lo psicodramma della Moreno al teatro Carignano. Mi dissi che era una fantasia paranoica ma seguitai ad averla.
In quei giorni, per tirarci su, io e Mimmo andavamo a correre al parco del Valentino. Ascoltavo in cuffia le canzoni dei tempi di Pirandello. In mancanza dei finanziamenti per scritturare gli attori, chiedevo alla corsa le endorfine per allucinare le scene dello spettacolo che non potevamo ancora provare in teatro. Una mattina mi sembrò di riconoscere per la prima volta le parole di una canzone degli anni Venti che nella cassetta stava tra Vipera e II paese dei campanelli:
"Spesso a cuori e picche
ansiose bocche
chiedono la verità.
Principi e plebe
vengono qua.
Madame di Tebe
le carte fa".
Quando la ragione vacilla le vie dell'occulto sembrano improvvisamente ragionevoli. Smisi di correre e, prendendo fiato, pensai che dovevamo consultare una grande maga bianca. Me la figurai: grassa e felice in mezzo a tanti gatti, che ci difendeva da quella nera, falsa magra e coi sandali a rete di plastica. Subito però la giudicai una fantasia kleiniana e cercai di cancellarla dalla mente. Tanto più che la maga bianca me l'ero figurata tale e quale alla Klein. Mi asciugai il sudore, ripresi a correre e la fantasia mi passò. Il motivetto invece non passò; mi rimase in testa e non se ne andò più via prima di un anno. Arrivai al Centro Studi del Teatro Stabile fischiettandolo.
"Senti, senti: Madame de Thébes!", esclamò Piero, "da Pirandello all'operetta".
Era un archivio teatrale vivente, più veloce di un computer ma meno prevedibile. Piero sarebbe diventato uno dei nostri migliori attori, interpretando trionfalmente in teatro il ruolo del signore che non parla chiaro nel salotto di donna Livia. Ma allora mi sembrava che un gioco poco chiaro lo facesse tra gli uffici del Teatro Stabile e un salotto delle USL. Decisi di fare un affondo.
"Son chiuse bocche", risposi, "e cori e picche, lasciano ad ogni cor". Aggiunsi un ghigno allusivo che gli rimbalzò addosso.
"No caro: non lasciano. Ma: la sciarada", disse lui.
"La sciarada?".
"Proprio così", canticchiò segnando il tempo con il dito,
"Ma son chiuse bocche
e cori e picche,
la sciarada ad ogni cor.
Senza altra bega
presto si spiega
basta far capo all'amor".
"E che vuoi dire? Che senso ha?", chiesi accusando il suo affondo.
"Niente, credo. È proprio lì il bello. Figurarsi: Segreti e trappole d'ognun scoprir- e frugacchiar nell'avventi... E lui cerca il senso! È solo un'operetta sai, mica Il Flauto Magico. A voi altri vi ha rovinato troppa analisi".
"Ma sei sicuro?". Dissi.
"Certo, caro. Controlla il libretto. Per me è come se mi dicessi 'Nel mezzo del cammin di nostra vita'. Non ho dubbi".
"Ma così non ha senso, scusa. Come facevano a cantarlo?".
"Cicalecciavano", rispose aprendo le braccia.
"Cioè?".
"Ci giocavano molto. Pedante!". Alzò gli occhi al ciclo. "Potevano mettere altre parole senza senso, e quello che volevano loro. A soggetto. Capisci? Che psicodrammatista sei?".
E se la sua fosse stata una lealtà di teatrante? Non faceva il doppio gioco, ma due giochi. E si aspettava che io facessi il mio contro uno dei suoi.
L'incontro con Piero fu decisivo.
Parlai a Bice del mio progetto di maga bianca contro maga nera. Lei non fece una piega. Rispose che da anni lei 'lavorava' con la migliore medium della città. Una signorina di mezza età che teneva un gruppo di studio frequentato anche dall'elite psicoanalitica e da primari in psichiatria. Bice chiese e ottenne un appuntamento straordinario. Finii per andarci come a un cartel lacaniano sperando che il linguaggio della maga fosse un po' meno ermetico.
"Non c'è problema" disse Bice parcheggiando.
"No. Il problema c'è", risposi, ubriaco di caldo e di stress. "È la soluzione che non c'è. La soluzione sarebbero almeno i quaranta milioni del primo preventivo e due mesi di tempo".
Immaginammo i titoli su Stampa Sera: MAGA DI PSICHIATRIA DEMOCRATICA TOGLIE FATTURA A PSICODRAMMA PIRANDELLIANO.
La medium abitava al centro, in una casetta operaia degli anni Venti che ricordava I Trentanove scalini di Hitchcock. Sul pianerottolo mi venne in mente la storiella del signore che va per la prima volta da una grande indovina; trova la casa; suona il campanello; una voce dietro la porta fa: 'Chi è?'; il cliente risponde: 'Cominciamo bene'.
L'appartamentino era ricco di accostamenti eccentrici. Notai un Budda d'antiquariato poggiato sul televisore, ma non trasformato in abat-jour come in quel salotto della Torino Bene dove l'arredatore gli aveva staccato la testa e gliela aveva messa tra le mani.
Mi aspettavo qualcosa tra i prodigi di Rol e i sorrisi di Zolla ma la medium sembrava una donna semplice e pratica. Non ostentava personalità Mana, nemmeno di genere folk. Del resto il carisma magico è impensabile al di sopra dei trentacinque gradi. Condensai la situazione in poche parole. Le dissi che uno sgambetto di ferragosto ci aveva fatto perdere un anno di lavoro e ogni finanziamento. Poi tacqui in attesa di un aiuto che, a partire dal momento in cui ero entrato, non mi aspettavo più di poter ricevere.
La medium sembrava sinceramente impietosita. "Eh, sì. Se ne sentono tante", disse offrendoci una mentina. "Cosa vuole. Torino è fatta così". "Beh! Vediamo un po' di chiamare il tuo spirito guida".
Si sistemò con la tablette sul grembo in attesa, a occhi chini. Fumava menta da una pipa ad acqua.
"Perché sono qui?" pensai. "Dagli Appennini alle Ande o dalle Indie al pianeta Marte?".
Silenzio. Rumore dalla pipa. Caldo.
"Si fa aspettare eh, il signore", disse.
"Vuoi dire lo spirito", spiegò Bice.
Ero imbarazzato. Magari era colpa del mio scetticismo. Mi sentivo ridicolo. Mi parve che persino un tappetino di pelle di pecora sotto davanti a me, mi guardasse con sarcasmo. "Che proiezione paranoica" mi dissi. Poi mi accorsi che la pelle era quella di un cagnolino appiattito come una sogliola sul pavimento, alla ricerca di un po' di fresco. Respirava appena.
"Povera bestia, com'è depresso!" pensai.
La mano della medium cominciò a passare un dischetto sulle lettere della tablette, come lucidandola.
"Grazie" sussurrò.
Cambiò timbro ed espressione. Capii che stava finalmente per dare voce all'entità tutelare del cliente. Parlò:
"Erminia - in te - sorella - e coppia".
Una spiritessa. "E questo che significa?" mi chiesi.
* * *
"Buon incontro - amato - e ben venga l'alleanza a noi - ora che la tempesta si sta acquietando - è il tempo della saggezza - dell'auto controllo che deve subentrare - meno che mai - è conveniente - che nasca ora tafferuglio - una polemica sociale che sarebbe - comunque sia - deleteria se è inevitabile - la violenza - da parte vostra per - attuare il progetto - è - pur tuttavia - importante - tacitare il più - presto possibile qualsiasi - commento".
Mi ci volle un po' a orientarmi. La medium non stava parlando più con la sua voce e nel suo semplice linguaggio ma come un'attrice diretta da Luca Ronconi. Staccava una parola dall'altra andando dietro le lettere indicate dai giri della mano simili a un valzer. Ogni parola, lasciata a se stessa, si dilatava dall'interno. Poteva andare a destra, a sinistra o in entrambe le direzioni. L'ambiguità dei legami catturò subito sia la mia attenzione che la mia disattenzione. Meno che mai poteva essere riferito sia ad autocontrollo, sia a tafferuglio. Era il contenitore giusto per un ascolto e una presenza scissi come i miei. Era inevitabile che l'io e l'inconscio fossero entrambi d'accordo con quel linguaggio aperto.
La parola tafferuglio mi piacque come un giocattolo. Lei la soffiò non in quattro sillabe ma in quattro rate: ta.fffè..ru...glio.
Sospettai che quella donna parlasse ai sistemi infiniti dell'inconscio di Matte Blanco e che qualcuno dei suoi primari le avesse insegnato i doppi legami terapeutici di Milton Erickson.
Procedeva velocemente. Accesi di nascosto il registratore chiedendomi se fosse corretto nei confronti di 'Erminia'. Dunque ero già in trance.
"Mettiti in azione tempestivamente - tacitiamo il più possibile le -polemiche - il partito - è partito - la partita è passata in - vostra mano - ma richiede destrezza e - molto buon - senso per proseguire".
Che 'il partito era partito' poteva significare almeno tre cose, che, alla luce dei fatti, mi sembravano tutte innegabili.
"Ma proseguire come?" domandai.
"Nessun - contatto - e non fate - nessuna - denuncia legale - non è questo lo scopo - vostro - vi saranno ancora - interferenze - ancora tenterà - di trascinarvi - nel suo gioco".
"Non rispondere, non aderire?" domandai.
"Non rispondere - qualsiasi - sia l'attacco che fa - è la migliore difesa in assoluto".
"E del nuovo accordo ristabilito solo ieri tra tutte le associazioni di psicodramma, sa già, la dama?", chiese Bice.
"Dama?". Pensai. "A Roma useremmo un'altra parola".
"Sa dell'incontro - che si è tenuto - in alto", sussurrò la medium. Noi appizzammo le orecchie. "In teatro - non è chiaro - ancora - le decisioni prese ma l'allarme..."
Fonava ai limiti dell'udibilità come l'ultimo Eduardo e noi, per sentirla, ci sporgevamo dalle sedie. Quando improvvisamente nella stanza si scatenò l'inferno. Il cane-tappeto si alzò di scatto e cominciò ad abbaiare furiosamente, girando nello stesso senso della tablette. Feci un salto sulla sedia. "Gli venisse un colpo" mormorai sentendo un'onda di adrenalina sulla schiena.
"L'allarme - c'è". Concluse tranquillamente la medium.
"Bau, Bau, Bau!", ringhiava il cane azzannando l'aria. Poi si fermò con la lingua di fuori e si riaccucciò in mezzo ai cadaveri della sua strage immaginaria. Si leccò i baffi. Bice e io ci voltammo insieme e ci guardammo negli occhi: lui era dalla nostra parte. Questa manifestazione di solidarietà animale ci faceva coraggio. Azzardai la domanda chiave:
"Scusi la domanda. Per caso risulta che la 'dama', a parte il ramo bancario, abbia commissionato qualche altro tipo di magheggio occulto contro la nostra rassegna?".
Lo chiesi vergognandomi come se mi trovassi al CNR o davanti al senatore Ossicini.
"No, rispose Erminia, "non - vi è stata - azione magica - vera e propria
- certo è - che incautamente - le - avete concesso - molto".
Il cane si alzò di nuovo in piedi. Mi preparai ma questa volta cominciò a gemere e ululare disperatamente: "Ahiuuuu, uhhhh". Pareva un coyote vedovo. Aspettammo che finisse.
"Che bestia empatica", pensai, "ha dei tempi straordinari".
"Chi manovrerà ora, dopo le banche e il partito?" chiese Bice, "cos'altro ci farà?".
"La sua azione è - prevedibile - ancora è - parte della partita - le informazioni che ottiene - vengono - dalla rete - professionale - d'attorno -"
"Una rete!", pensai. Possibile che Erminia conoscesse il linguaggio della sociometria? Interner non c'era ancora.
"È possibile", chiese Bice, "allo spirito concentrarsi sui pensieri di lei e dirci chi è la sua spia?"
"Eh no! Scusa Bice", intervenni, "lo spirito ha già parlato chiaro. Ogni presenza ostile dobbiamo dimenticarla. Ora - dobbiamo - solo - concludere". Cominciavo anche io a parlare alla Ronconi.
"Concordo", scattò subito la medium, "la sua -presenza - dovete annullarla".
"L'incantamento", spiegai a Bice, "così ce lo facciamo noi stessi. Basta o diventerà una persecuzione". Lo dissi come se fosse un suo problema.
"Perfetto fratello - esatto - effettivamente - è stato così".
Non capivo perché ma Bice mi guardava a bocca aperta.
"Senza alcuna - polemica", continuò la medium, "Si muta - il titolo del progetto - si motiva ufficialmente - il cambiamento con - una - revisione - più incentrata sull'aspetto - artistico - si avrà il teatro - agite - la gente del teatro - gli attori - vi aiuteranno". Aprì gli occhi e disse:
"Ma che brava questa guida, neh! È una guida pratica. È una guida che sembra di averla scritta tutta dietro una scrivania".
"È un Centro Studi" disse Bice.
"Proprio così. È un centro studi", ripeté la medium. "Fredda, chiara. Niente da dire: è tremenda!"
Mi decisi a rivelare un mio dubbio profondo. Più ridicolo e tormentoso di quello sulla fattura:
"Non so bene come dirlo. Ma ho pensato anche a Moreno e Pirandello. Mi sono immaginato gli spiriti di questi due grandi personaggi. Che pensano loro? Approvano questo psicodramma per Ciascuno a suo modo?". Stavo per dire che parlavo in senso metaforico, ma ebbi la decenza di non farlo.
La risposta della medium fu geniale. Se avesse detto che Jacob e Luigi facevano il tifo per noi dall'al di là, avrebbe sciupato tutto. Non lo sapevo, ma la domanda era una trappola e lei la smontò per entrambi. Disse:
"Sì -fratello - questa tua dedica è - (a)effettiva - sincera -sì".
Fu una Vera inversione di ruoli: nel momento in cui mi consentiva di regredire in un teatro di sentimentalismo magico, la medium faceva anche la guardarobiera dal mio buon senso. (Così imparavo che in certi casi un veggente può intuire e contenere i conflitti del suo cliente e far recitare agli "spiriti" i ruoli necessari per risolvere il gioco). In quel momento però non pensai niente del genere. Ero rimasto incantato a fissare una farfalla che sfiorava il soffitto e non potevo distogliere lo sguardo né muovere il collo.
La mano della medium scattò ancora:
"II progetto così - come è pensato ha - grosse implicazioni- e possibilità future - per impostare - una nuova -forma di teatro - dove - il coinvolgimento - tra scena ed emozione - del pubblico - sia il più - ampio possibile"
"E cosa occorre per questo?"
"Occorre - un bisogno - di immediatezza - espressiva - piuttosto avventuroso".
Questa 'immediatezza espressiva' la allucinai di colpo su quel soffitto. Era un edelweiss sfocato, sullo sfondo di una montagna lucente da cui spuntavano tavolini di Baratti, banconote, telefoni, locandine, portieri, corrieri, tessere, cene, lettere, assessori, una bilancia pesapersone, aeroplani e persino libri. Un gruppo di psicodrammatisti si aggirava tra le nevi battendo i denti dal freddo alla ricerca dell'edelweiss.
Staccai lo sguardo dal soffitto. "Qual è la differenza", chiesi, "tra questo bisogno di espressione avventurosa e il teatro tradizionale? Erminia può dircelo?".
La mano fece segno di sì. Uno spirito senza forma stava per parlare sul conflitto Vita/Forma.
La medium disse: "Per il teatro, occorre annettersi - tutte quante le astuzie
- concrete - riconoscersi - in caccia - costantemente in caccia - di spazi".
"Questa notte", dissi, "ho fatto un sogno. Ero rimasto fuori del Teatro Comunale col mio amico Pietro. Sul portone c'era un cartello: CHIUSO PER RAGIONI DI FAMIGLIA. Eravamo decisi ad entrare ugualmente. Pietro scalava la facciata fino al balcone piantando dei chiodi da alpinista. Io, che non ne avevo, usavo le unghie e le scarpe da tennis".
"Perfetto - queste - ti servono e bada - la violenza - è stata - eccessiva
- per un antico - divieto - spetta a voi - separare la vostra - anima archetipica
- dalle - immagini che la abitano".
La risposta mi sembrò poco comprensibile. Tornai a fissare il soffitto. Improvvisamente mi sentii molto ansioso. Lei dovette capirlo e corresse il tiro:
"... gioca... la dama... gioca...".
Fu come se la medium avesse premuto il tasto di riavvolgimento del mio stereo: da Madame de Thébes la colonna sonora del nostro incontro passò a Vipera e si fermò sull'ultima strofa:
"Per non amarla più, vo andar lontano
Ma lontano non posso rimanere
E vo' il suo bacio che mi rende insano
La sua perfidia che mi fa piacere".
Ora la vipera era salita sulla bilancia pesapersone e la guardava con aria irritata. Come mai ciò che vedevo poteva farmi piacere?
Eppure era così: poteva farmi un piacere.
Le ultime parole della medium furono queste:
"I tempi sono - schiaccianti - ma - dentro - il teatro - non avete nulla da inchiodare - tutto da imbastire - Buona Pace - Fratello".
Arrivò dalla strada il trillo di una bicicletta. Il cane si stiracchiò sul pavimento. Per una compagnia teatrale, con quel caldo, sarebbe stata l'ora giusta per iniziare le prove.
"...nulla da inchiodare, tutto da imbastire...", cominciai a pensare.