L'analisi attiva nella psicoterapia fa parte di un modello di derivazione psicoanalitica elaborato dal grande analista ungherese Sandor Ferenczi (1873-1933). L’approccio si basa su dei punti che, all’epoca in cui furono formulati, apparvero rivoluzionari rispetto al pensiero di Freud.
1) La teoria delle pulsioni ha i suoi limiti. In realtà il disturbo del paziente deriva da relazioni traumatiche con un ambiente patogeno.
2) L’interazione analista/paziente dovrebbe sfociare nella creazione di nuovi ruoli salutari.
3) L’astinenza analitica prevista dal setting nasconde l’ipocrisia e l’indifferenza del medico. Rischia di veicolare una lontananza emotiva o un rifiuto, che riportano il paziente a situazioni di deprivazione vissute nell’infanzia.
4) L’analista che nella seduta riesce a ottenere la regressione del paziente, fa emergere ferite che richiedono empatia e cura.
5) L’interpretazione verbale non basta: il paziente fa nuove esperienze emotive solo quando interagisce emotivamente e fisicamente col terapeuta.
Ferenczi, l'enfant terrible dell'analisi, fu il primo a fare interventi terapeutici concreti. Con lui l’analista, scienziato dell'anima seduto dietro il lettino, si trasformava in attore terapeutico. Non si limitava ad ascoltare e a parlare, ma poteva usare il corpo. In un caso difficile, senza sapere nulla dello psicodramma, Ferenczi invitò una paziente in difficoltà ad avvicinarsi a lui. La abbracciò e le accarezzò la testa come avrebbe fatto una buona madre. La disapprovazione di Freud fu totale. Oggi molte di queste proposte sono acquisite dalla psicoterapia. Ma negli anni ‘20 il talento di Ferenczi scatenò gli attacchi degli analisti più conformisti e l’invidia dello stesso Freud.
È evidente che la tecnica attiva è simile agli Action Methods di Moreno ma con una differenza. Ferenczi agisce ancora dentro il setting duale della psicoterapia che esclude lo sguardo e la partecipazione del gruppo di psicodramma. Mentre Moreno opera in un nuovo genere di setting, con degli ego ausiliari e davanti a un gruppo. Nello spazio teatrale, ludico e simbolico dello psicodramma, il terapeuta che cerca di raggiungere un contatto profondo. Non si deve rapportare in prima persona coi fantasmi del paziente, ma solo aiutarlo a metterli in scena.
Il regista dello psicoplay dunque non recita, ma affida i ruoli agli assistenti terapeutici o agli altri pazienti del gruppo. Così l’interazione riparatrice, tesa a ristrutturare le conseguenze del trauma del paziente, avviene in uno spazio-tempo diverso da quello reale. Definendo l'azione correttiva come play, lo psicoterapeuta può favorire la regressione e la ristrutturazione attiva di traumi e carenze. Non cade nelle trappole e nelle ambiguità di una messa in atto che farebbe corto circuito col transfert.
[ Ottavio Rosati ]
Bibliografia:
- Sandor Ferenczi, Diario clinico (gennaio - ottobre 1933), Raffaello Cortina, 1988.
- André Haynal, Freud, Ferenczi, Balint e la questione della tecnica, Centro Scientifico editore, Torino, 1990.