LO PSICODRAMMA PERVERSO DI TOSCA AL FESTIVAL DI TORRE DEL LAGO PUCCINI

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Che cosa è uno psicodramma e in che senso Tosca ne descriverebbe uno? Anche se nel gergo giornalistico la parola “psicodramma” viene usata a vanvera per descrivere qualsiasi avvenimento drammaticamente psicologico (dalle zuffe ai Congressi democristiani fino alle processioni delle tarantolate in Basilicata) ciò che chiamiamo “psicodramma” è un gioco peculiare e specifico della psichiatria dinamica moderna, inventato negli Anni Venti da Jacob Levi Moreno, a metà strada fra teatro e psicoterapia. Si tratta di una rappresentazione a soggetto coordinata a fini terapeutici da uno psicologo clinico che, come un regista, cura la messa in scena (detta acting out) dei sogni o delle fantasie o degli episodi della vita del paziente. Giocando teatralmente nello psicodramma si può ottenere una trasformazione esistenziale, talvolta straordinaria. La tecnica è divertente e appassionante perché (sia il terapeuta che il paziente) possono esprimersi non solo a parole ma anche attivamente, cioè facendo tutto, o quasi tutto, quello che è escluso dal setting psicoanalitico classico. Ma si dirà: La storia di Tosca ha ben poco di terapeutico. In effetti, al contrario della catarsi terapeutica che si cerca in psicodramma, una delle caratteristiche del libretto di Illica e Giacosa è che tutto va male per tutti i protagonisti. Tosca, Scarpia, Cavaradossi riescono a danneggiarsi reciprocamente con un talento straordinario perseguendo fino alla morte l’altrui e la propria infelicità. Tosca è ben diversa da Lila il sing spiel (dramma con canzoni) di Goethe (che Moreno rappresentò per inaugurare il teatro psicodrammatico di New York) che narra di un medico che utilizza il teatro per guarire dalla follia una sua paziente. La continua finzione serpeggiante in Tosca (bugie, omissioni, nascondimenti, doppi sensi, camuffamenti, messe in scena, false promesse, inganni, tradimenti) ha ben altri esiti che la “catarsi da integrazione”. Come poche altre opere, quella che Puccini ricavò dal dramma di Sardou è percorsa da confusioni tra il vero che dovrebbe essere falso e il falso che sembra vero. Una trama apparentemente popolare e facile è infarcita di ambiguità e si rivolge alla psiche dello spettatore nel linguaggio dell’inconscio dove sono di casa assonanze, doppi sensi e giochi di parole espliciti e camuffati. Tuttavia il libretto è di grande interesse psicologico perché il suo meccanismo è costruito con rara sapienza. Assistiamo a quel tipo di strategia rivelata dalla psicoterapia relazionale in alcune famiglie dove la confusione dei linguaggi si fa psicosi. Nella famiglia Tosca (che detto per inciso è una piccola famiglia anti-edipica dal momento che il crudele “padre” Scarpia vuole rubare la donna del “giovane” Mario) ognuno è tanto impegnato a mentire all’altro che non si accorge che l’altro lo sta, a sua volta, ingannando. È il caso del secondo atto a palazzo Farnese dove assistiamo a un grande e inutile scontro tra maestri dell’inganno che si distruggono l’uno con l’altro. Se Tosca è tanto ingenua da illudersi di poter davvero far fuori l’uomo più potente di Roma, Scarpia dal canto suo è un illuso nella pretesa di riservarsi l’ultimo colpo di scena davanti a una grande professionista del teatro, per di più innamorata. Pretesa questa, che Scarpia finisce per perseguire anche se l’imprevisto finale nel secondo atto gli impedirà il godimento del finale ultimo nel terzo. Tant’è: il suo diventa un finale postumo, un finale fuori vita. Quella che Scarpia aveva ordito e immaginato come la sua vittoria andrà in scena tutt’al più come vendetta. Difficile stabilire a questo punto chi abbia il privilegio dell’ultima parola. Se artisticamente la vittoria è di Puccini, dal punto di vista della logica sistemica del plot non vince nessun personaggio, nemmeno il sacrestano che ha sottovalutato la pericolosità di giocare coi fanti oltre che coi santi. Perciò definirei Tosca uno psicodramma in senso improprio, anzi perverso. Ci troviamo alle prese con un minerale teatrale da cui ricavare utili insegnamenti. Poiché gli estremi si toccano, soprattutto nell’inconscio, l’uso della suggestione, del doppio legame, del paradosso evidente in quest’opera può servire ad arricchire l’armamentario degli strumenti dello psicoterapeuta così come lo studio dei sistemi della malavita finisce per arricchire l’esperienza della polizia. La prima di cui sospettare è Tosca la cui struggente invocazione Vissi d’arte, Vissi d’amore potrebbe essere considerata l’inno nazionale dei collezionisti d’ingiustizie in perenne rivendicazione masochista di fronte alla perfidia di questo e di quell’altro mondo. L’universo ce l’ha con loro. Sappiamo che, in accordo ad una religiosità contadina e folkloristica, i personaggi di Verdi alzano spesso la loro preghiera al cielo per chiedere qualcosa anziché per celebrare la gloria di Dio. Cioè, come direbbe Jaspers, per ottenere di avere invece che di essere, per la vita invece che per l’anima. A Puccini va invece il merito di aver levato al cielo il canto popolarissimo e sublime che, piuttosto che chiedere qualcosa o celebrare qualcuno, ha la sola ambizione di far crescere il senso di colpa del Padreterno. La pratica clinica rivela che chi leva al cielo simili accenti si scava la fossa sotto ai piedi. La rivendicazione di Tosca davanti a Dio, oltre che per la sublime melodia è dovuta al successo riscosso dalla rivendicazione dell’io masochista davanti al Sé. La popolarità dei vissi d’arte lo rende un test formidabile per smascherare quella che Edmund Bergler chiamava la “nevrosi del collezionista di ingiustizie”. La stupefacente animosità di Tosca, che sfodera grinta e pugnale e fa fuori Scarpia, sarà anche un bel finale d’atto ma come colpo di vita non è un granché, anzi è un vero e proprio specchietto per allodole. Questa coltellata edifica i presupposti del grandioso finale autolesionistico. C’è da supporre insomma che, dopo aver sentenziato “davanti a lui tremava tutta Roma” apparecchiando a morto l’eccellente cadavere, tutta Roma abbia tremato anche davanti agli occhi della povera Tosca in caduta libera dagli spalti di Castel Sant’Angelo. Il primo a sentenziare paradossi contraddittori nell’opera è Cavaradossi. Se, con una logica oscillante fra quella di Achille Campanile e quella di Jaques Lacan, provassimo a considerare seriamente il suo nome scopriamo un piccolo segreto: è addirittura il “Cavalier Paradossi”. Il fonema Cavaradossi ribadisce infatti con ridondanza quelle tre lettere del titolo Cav. Che (ritirandosi umilmente prima del puntino) sul biglietto da visita, mettono a nudo i paradossi un po’ come accadrebbe con degli ipotetici “Barone Barretta” o “Conte Consalvi”. “Paradossi” è infatti, con l’aggiunta modesta della lettera “P”, l’unica parola italiana di senso compiuto che emerge per sottrazione del cavalierato dal nome del personaggio. L’utilizzo suggestivo e suggestionante dei nomi dei personaggi da parte degli autori drammatici è un espediente noto. Un esempio bellissimo è quello di Pirandello che ne Il berretto a sonagli chiama Ciampa il povero protagonista travolto nella miserabile manovra che rivela le sue corna e squalificato davanti ai suoi paesani. Il personaggio tra il primo e il secondo atto della commedia, cade per terra e si rompe la testa. Poiché Ciampa ha avuto modo di narrare agli spettatori che suo padre quando cadeva metteva sempre le mani dietro la schiena e non davanti, Ciampa entra nel nome del padre, cioè in Ciampa, identificandosi con un passo falso. Ma torniamo all’opera di Puccini. I paradossi di Cavaradossi iniziano alla romanza che spiega agli spettatori maschi che l’arte nel suo mistero le diverse bellezze in sé confonde. La conclusione è una sfacciata menzogna che nella realtà non credo convinca nessuna donna tra il pubblico: “Ma nel ritrar costei il mio primo pensiero Tosca sei tu”. Vediamo perché. Abbiamo a Sant’Andrea della Valle due donne e due immagini sacre che spiccano tra le altre. Una è quella di Maria cui si rivolge devotamente Tosca. L’altra è il quadro di Maria Maddalena messo in cantiere da Cavaradossi. Ebbene di questo quadro in fabbrica, veniamo a sapere che è basato sul sincretismo segreto di due modelle amate dal pittore, Floria Tosca e la marchesa Attavanti (“L’arte nel suo mistero le due bellezze in sé confonde…”). E al di là della sublimazione artistica in atto, il desiderio del nostro eroe compie un overlapping erotico dell’amante alla bella donna misteriosa. L’affermazione di scusa di Mario “ma nel ritrar costei il mio sol pensiero sei tu” è anche la prova a suo carico perché ignoriamo la natura precisa del pensiero che Mario rivolge a Tosca nel ritrarre l’Attavanti. La gamma del pensiero, come quella del sentimento, è ampia e corre dal polo dell’affettività a quella dell’irritazione e dell’ostilità, dell’apprensione del destino altrui all’apprensione per il destino proprio. La frase di Mario è un esempio di affermazione ambigua in cui ogni spettatore potrà, più o meno coscientemente, collocare i suoi contenuti emotivi. Il paradosso di Mario è dunque che l’ammissione del suo reato erotico di infedeltà sia tutt’uno con la sua decolpevolizzazione. La confusione evocata tra le due bellezze raggiunge così anche le idee del pubblico sopraffatto dalla sinestesia musicale e teatrale. Insomma, presi dalle armonie pucciniane, finiamo per prendere sul serio anche quelle del cavaliere che pretende di amare Floria in quanto la pensa tutte le volte che spia eroticamente l’Attavanti. C’è poi un altro dettaglio significativo: il soggetto del quadro del cavaliere è quello, relativamente raro nel trovarobato del melodramma, di Maria Maddalena. Ecco il secondo overlapping, un’altra confusione un altro paradosso. Un nome duplice per un destino clamorosamente doppio: prima prostituta poi Santa. Duplice, doppio ancora una volta, come le bellezze e i modelli che l’arte confonde in sé nel suo mistero. Ma attenzione. Se l’Attavanti è bionda con gli occhi celesti è facile concludere che sarà più materiale, “di pelo scuro”, la componente “Maria Maddalena” ispirata a Floria Tosca (e resta forse una eco inavvertita nella nota bestemmia toscana Porca Ma-tosca). La marchesa, che nasce bene e non calca le scene, si è già accaparrata tutta la vibrazione verginale, celeste e Mariana. Di rimando, allorché Tosca ottiene da Mario la conferma del suo amore, nelle battute seguenti: Cavaradossi Mia Tosca idolatrata, ogni cosa in te mi piace; l'ira audace e lo spasimo d'amor! Tosca Dilla ancora la parola che consola... Dilla ancora! Cavaradossi Mia vita, amante inquieta, dirò sempre: "Floria, t'amo!" Ah! l'alma acquieta, sempre "t'amo!" ti dirò! Tosca (sciogliendosi, paurosa d'esser vinta) Dio! quante peccata! M'hai tutta spettinata! Cavaradossi Or va, lasciami! Tosca Tu fino a stasera stai fermo al lavoro. E mi prometti: sia caso o fortuna, sia treccia bionda o bruna, a pregar non verrà donna nessuna! Cavaradossi Lo giuro, amore!... Va! Tosca Quanto m'affretti! Cavaradossi (con dolce rimprovero vedendo rispuntare la gelosia) Ancora? Tosca (cadendo nelle sue braccia e porgendogli la guancia) No - perdona!... Colpisce nei versi di Giacosa e Illica una petulanza erotica modernissima che ne fa gli autentici precursori di Ronald Laing. Si pensi al celebre poemetto Mi ami? di cui cito qui un breve stralcio: “LEI mi ami! - LUI si ti amo - più di tutto! – sì più di tutto - più di tutto al mondo? - si più di tutto al mondo - ti piaccio? - si mi piaci - ...mi ami davvero? - si ti amo davvero - di’ ti amo - ti amo - giura che non mi lascerai mai? giura che non mi lascerai mai mai - mi faccio una croce sul cuore e che possa morire se non dico la verità (pausa) - mi ami davvero?” Quando Tosca finalmente esce di scena ripete per la seconda volta la raccomandazione per Maria Maddalena/Attavanti: “Falle gli occhi neri!”. Il doppio senso, pittorico e pugilistico, avrebbe fatto le gioie di Freud. Questa che da anni è una mia profonda convinzione ha ricevuto recentemente conferma in una messa in scena di Tosca a Chicago dove, sotto il palcoscenico, scorreva il testo luminoso della traduzione. La raccomandazione di Tosca è stata tradotta in americano secondo la sua accezione latente, cioè “PAINT HER BLACK!” (falle due occhi neri) invece che “GIVE HER BLACK EYES!” (dipingi due pupille nere) senza che gli spettatori battessero ciglio. Quanto ai paradossi di Floria Tosca, il principale doppio legame (double bind) è l’ingiunzione paradossale veicolata dal personaggio. Il destino dell’eroina merita un posto particolare tra quello delle eroine meta teatrali del secolo. In Questa sera si recita a soggetto (1930) Pirandello fa in modo che si rappresenti una spontaneità, una messa in scena finta. Come è noto, il regista Hinkfuss (parodia di Max Reinhardt) cerca di convincere una compagnia di attori, a improvvisare una novella di Pirandello Leonora addio (1910), contenente a sua volta citazioni de Il Trovatore di Verdi. La compagnia si ribella ad Hinkfuss e comincia a recitare il soggetto solo dopo averlo cacciato da teatro. Ma dal punto di vista dello spettatore questa è una finta recita a soggetto: l’attrice che nella commedia interpreta il ruolo di Mommina non recita davvero a soggetto perché resta un personaggio. Cosa accade invece nel caso di Tosca? Certo la sua caduta finale a Castel Sant’Angelo avviene sul serio. Si tratta di un fulmineo passaggio all’atto di fronte all’arrivo di Spoletta e delle guardie, con cui Floria segue la caduta terribilmente seria di Mario. Nessuno dei due cade “come la Tosca a teatro”. A questo punto può essere evidente la suggestiva implicazione ipnotica del racconto. Tosca, la Tosca che cade a teatro, cade sul serio. Certo, il soprano scivola dietro il palcoscenico su un materasso alle prove, alla prima e a tutte le repliche. Ma il personaggio Tosca è appunto quello di una cantante che a teatro sa come cadere. Dunque davvero cade Tosca. Per finta ma sul serio. Gli stessi giochi di parole e giri di frase delle strategie confusive ma terapeutiche dell’ipnosi possono intrappolare gli uomini nelle loro difficoltà e nelle loro catastrofi. Recentemente sono stato chiamato per risolvere (come clinico specializzato in problemi dello spettacolo) una situazione teatrale difficile che mostrò un garbuglio di livelli teatrali simile a quello di Tosca. La storia è questa. Una compagnia che da un mese provava la Salomè di Wilde, si era fermata alle soglie della “prima”. La giovane protagonista, di colpo, si era innamorata del regista gay (senza alcuna speranza di poter essere ricambiata) e dava preoccupanti segni di dissociazione. Il padre di lei, medico e ben prestante, era intervenuto con psicofarmaci e minacciava l’interruzione delle prove per fare un ricovero in clinica. Il regista mi chiese aiuto in extremis e mi riferì che tutto era cominciato il giorno che la sua Salomè gli aveva buttato le braccia al collo sussurrando: “Il mio Iokanaan sei tu”. Di fatto come Iokanaan, anche il regista stava per perdere la testa e la sua autorità, non in senso erotico ma per disperazione. In teatro, dove avvenivano le prove e dove contavo di realizzare una terapia in situ, la giovane attrice arrivò un po’ in ritardo. Quello che accade nel giro di cinque minuti cambiò le mie idee e rese del tutto superfluo un intervento psicodrammatico sulla compagnia. L’attrice si avvicinò al regista dandogli un fiore. Tutti si chiedevano se ce l’avrebbe fatta a riprendere le prove. Il regista sorrise, mi presentò e con aria serafica disse: “Sai cara, cosa mi è venuto in mente da molti giorni? Un grande film di Billy Wilder con Gloria Swanson: Sunset Boulevard (Viale del tramonto). Ricordi la scena in cui Gloria Swanson, dopo aver ucciso l’amante, viene portata in manicomio? La diva scende lo scalone della villa hollywoodiana tra giornalisti, poliziotti e infermieri mentre recita come se stesse sul set. E pensa un po’ cosa recita mentre la portano in manicomio? Recita la Salomè di Wilde.” Lo guardai sconcertato. Il regista, di rimando, osservò la mia espressione con perplessità come se non capisse le ragioni del mio stupore. Nel giro di pochi istanti avevo avuto la prova che i sintomi della ragazza rientravano in una complessa dinamica instaurata inconsciamente dal regista per ragioni che emersero in seguito e che furono elaborate in modo da consentire l’andata in scena dello spettacolo. Esaminiamo con cura la citazione del regista che, se non altro, ha tutta l’aria di un intervento inopportuno, di una gaffe. Lui evoca un vecchio film di Wilder dove spunta fuori la pièce di Wilde nel tragico finale in cui la protagonista, avendo fatto fuori nella realtà un uomo (come Salomè nel mito) perde il contatto con la realtà e delira. Ma c’è di più. Questa trama viene riferita scavalcando il personaggio protagonista, Norma Desmond. Sembra che a fare corto circuito con Salomè non sia lei nel film, ma Gloria Swanson nella realtà, l’attrice che viene portata in clinica. In tal modo alla nostra attrice diciannovenne veniva suggerito di delirare nel ruolo anziché di recitarlo sul palcoscenico, cioè di fare proprio quello che stava facendo. L’ambivalenza del regista (che voleva e non voleva andare in scena) trova riscontro nell’evocazione implicita dei due registi di Sunset Boulevard: uno Billy Wilder, che realizza il celebre film con la Swanson, un altro che è il personaggio del film interpretato da Erich Von Stroheim. Si tratta del maggiordomo della star, già suo regista, ormai compiacente con i deliri di lei e calato in un rapporto di masochista adorazione in cui è escluso il sesso. Va sottolineato che la forza della suggestione inconscia sta nel suo carattere indiretto e non esplicito. Scavalcando Norma Desmond e sostituendola con Gloria Swanson, si crea la confusione tra personaggio 1 (Norma Desmond) e personaggio 2 (Salomè). Sono cose che capitano quando un personaggio è anche attore. Il personaggio si confonde e confonde. Soprattutto nel caso che lo mettano in scena giovani artisti ingenui. Il metateatro di Tosca, a differenza di quello della trilogia pirandelliana, è lontano da palcoscenici e si svolge tutto tra i monumenti architettonici di Roma antica. Un’altra caratteristica è che il suo climax ha luogo davanti a un plotone di esecuzione piuttosto che alla presenza di un pubblico in subbuglio come in Ciascuno a suo modo o Questa sera si recita a soggetto. Lo scatto fatale di Tosca semmai assomiglia, nella sua conversione autodistruttiva, a quello di Enrico IV che, nel dramma di Pirandello, chiude i giochi usando sul serio un pugnale da ballo in maschera, da attrezzeria teatrale allo stesso modo che Tosca usa sul serio la sua arte di cadere a teatro. Ma prima di arrivare a questa chiusura dei giochi per esaurimento degli interpreti, la storia di Tosca ha avuto modo di ricavare dai tre atti e dai tre personaggi un grande numero di colpi di scena. Lo spettatore è stato spesso tentato di credere che almeno uno dei tre personaggi potesse vincere. Errore. Giusto ieri, viaggiando da Verona a Torre del Lago, mi capita di assistere a un gioco di ferragosto che mi sembra una metafora del libretto di Tosca. Nel parcheggio di un autogrill sull’autostrada un uomo corpulento di sessant’anni con le unghie sporche e la voce roca giostra attorno a un tavolino coperto di ovatta di fronte a un pubblico di dieci persone. Gioca alle tre carte muovendo una pallina di gomma nera sotto tre campanelle di metallo. L’erede di Dulcamara, passato dagli elisir d’amore agli auto-grill, fa circolare a una velocità vertiginosa un discreto numero di biglietti da centomila lire. Nel giro di un minuto un milione passa da una mano all’altra. Qualcuno arriva o finge di arrivare, dà un’occhiata, si ferma, punta. Perde. Quando si allontana, scuro in viso, vuol dire che è un giocatore vero. Se invece sorride vuol dire che è un compare. Capisco che Dulcamara dirige un piccolo numero di compari il cui scopo è di vincere ogni volta che perde lui, incastrando un allocco di passaggio. In alcuni momenti (che probabilmente l’uomo orchestra ad hoc) posso benissimo vedere dove è nascosta la caccola da mezzo milione. Cominciò a sembrarmi la pallina della vittoria. Le campane nelle mie riflessioni pucciniane, mi ricordano quelle di Tosca e i suoi tre personaggi forse anche perché abito a Roma in un palazzo equidistante da Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo. Assorto in questa riflessione, con l’angolo dell’occhio noto che la pallina spunta dalla campana di Tosca, non da quella di Scarpia come invece crede un tale alla mia destra che punta e perde quattrocentomila lire. Infatti Dulcamara solleva la campana di Scarpia, gli mostra che è vuota e si prende i soldi. Poi si rivolge a me e dice: “dica Lei, in quale delle due campane sta la pallina?”. Io glielo dico però, essendo professionalmente distorto dall’arte del sospetto, preciso che glielo sto dicendo da “fuori gioco”. Lui fa finta di non sentire, rovescia la campana di Tosca, la mia campana, ci trova la pallina della vittoria, si complimenta e mi consegna i soldi. Rifiuto con fermezza. Lui insiste spiegando che tanto per lui fa lo stesso: “a ogni giro deve vincere qualcuno”. Insisto a rifiutarmi nella perplessità generale e ripeto che il mio è stato solo un parere disinteressato. Mentre, con la mente lucida resto a godermi lo spettacolo scopro che, mio malgrado, mi batte il cuore. È in atto dunque una suggestione ipnotica che colpisce l’amigdala e l’emisfero destro. Arriva un povero operaio che, dal dialetto, sembra diretto in Puglia per la sua vacanza sospirata tutto l’anno. Porta ancora in tasca i marchi del suo salario. Ma per il nostro Dulcamara va bene lo stesso. Gli fa vedere una facile verità allestendo un trucco elementare che chiunque scoprirebbe: mette la pallina da Cavaradossi ostentando goffamente che stia invece da Scarpia. Il giocatore non abbocca a un trucco tanto ingenuo e sceglie la campana di Cavaradossi. Il vero trucco però deve ancora arrivare. Nella frazione di secondo in cui l’operaio illuso di aver visto giusto, tira fuori freneticamente i marchi dalla tasca, Dulcamara placidamente trasloca la pallina nella campana di Tosca incitando gli altri giocatori a puntare anche loro. Dulcamara così non intascherà i marchi personalmente perché, secondo la logica “uno vince, uno perde” li darà a una sua spalla che punta sulla campana giusta. Impossibile vincere a un gioco del genere. Impossibile sapere da che parte sia davvero la vittoria. Impossibile identificarsi nel vincente. La vittoria scorre velocemente dentro al triangolo di Tosca, Scarpia, Cavaradossi. Mentre si mette insieme l’energia necessaria a finanziare l’identificazione, la vittoria è già da un’altra parte. Vince solo chi orchestra il gioco. L’unico che può vincere è lo spettatore che ne resta fuori limitandosi a tenere d’occhio le tre campane

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