Psicoplay 1. di Leo Gullotta con Ottavio Rosati

Teatro Stabile e Università di Catania con Plays e Cinecittà Holding - 2002. Uno psicoplay, a tratti irresistibile, di Leo Gullotta con la conduzione di Ottavio Rosati in un gruppo di studenti della Scuola di Teatro. L'evento ha luogo nella nuova Aula Magna della Facoltà di Lettere, in occasione del play "Fantasmi" di Ezio Donato sui rapporti tra lo psicodramma di J. L. Moreno e il teatro di Luigi Pirandello.

 

Studente n.1: Nella domanda e nella risposta: nessun copione.

Ottavio Rosati: cioè?

Studente n.1: Nella domanda e nella risposta che ho appena dato, comunque si finisce per recitare.

Leo Gullotta: Cioè, tu pensi che, ormai nel ruolo dell'attore, cioè colui che recita, questo lo possa anche mettere in atto, diciamo, fuori dal luogo di lavoro, nella vita, in questo caso, in questo caso un incontro, voglio dire di abbandono, è un incontro di rilassatezza, o perlomeno ognuno di noi, io compreso, deve esserci dentro a questo abbandono. Dici troppo narcisismo, forse?

Studente n.1:  ho detto che è il limite, è un filo troppo sottile

Leo Gullotta: in generale?

Studente n.1: in generale

Leo Gullotta: In generale, cioè, non perché uno faccia l’attore di professione.

Studente n.1: Il filo è sottile e una persona abituata ad un certo lavoro è più facile fingere e in qualche modo controllarsi ma questo autocontrollo ha più spessore

Leo Gullotta: Invece, pensa, io ti do la mia esperienza.

Studente n.1: probabilmente mi sbaglio

Leo Gullotta: no, no. Non è un fatto di certezze. Credo che la psiche, comunque, non abbia certezze. Pensa che, se c'è una zona, una categoria di professionisti sono proprio gli attori, che, in generale, sono persone di una timidezza incredibile, gli attori, eh. Attore, quindi intendo, con un mondo dentro, con una capacità, con una voglia di comunicazione, con un talento; quindi, tutto il resto è proprio laterale. Sono le persone più timide. Hanno bisogno di avere dei personaggi, di viaggiare in altri luoghi per scoprire qualcosa di loro stessi. Quindi non è vero, perlomeno mi sembra che questo sia vero.

Ottavio Rosati: vediamo, vediamo. Proviamo a vedere

Leo Gullotta: aspetta facciamo agire (passa il microfono ad altra persona del pubblico)

Studente n.2:  Ha voglia di scoprire qualcosa di sé stesso, adesso?

Leo Gullotta: No, no. Ma non è che, e ti dico un pezzettino del mio carattere: quello che mi ha sempre – io ho 56 anni – quello che – faccio questo mestiere, l’attore, da quarant’anni – quello che mi ha sempre accompagnato è la curiosità, ma non soltanto nel lavoro, proprio nella vita. Non è che ho scelto il teatro in un modo. Cioè, io mi propongo, come nella vita, anche sul lavoro.  Chiaramente, poi ho delle, come posso dire, delle preparazioni tecniche per questo recito. Mi avvicino sempre a delle nuove esperienze o a dei percorsi diversificati, e soprattutto nel lavoro. Sono noto per essere un tipo d’attore poliedrico, cioè, che attraversa tutti i settori dello spettacolo. L'attore questo che deve fare. Cioè, nessuno mai si è sognato nel mondo di dire, prendo un esempio importante in modo che per tutti sia chiaro: Jack Lemmon. Nessuno mai si è sognato di dire perché fa “Missing”, bellissimo film di Costa-Graves sui desaparecidos e perché ha fatto a “Qualcuno piace caldo”. È soltanto in Italia che si attraversa questa specie di luogo comune, dove sicuramente c'entra tantissimo la televisione, malessere della televisione, specchio domestico dove nessuno voleva essere come un elettrodomestico, ma come una condizione di compagnia, di solitudine, di sé stesso. Quindi, per quanto mi riguarda, io ho sempre, come posso dire... mi abbandono, voglio abbandonarmi, la curiosità ha accompagnato sempre mia vita. Tu pensa che per essere uno di Catania, e fin qua niente di male, come in un’altra città. Però io sono nato in un quartiere popolare, che poi è qua vicino, u Fortino, Fortino. Se c'è una cosa precisa che i quartieri popolari danno per i ragazzi, i bambini, quelli che nascono, in generale, è che sdrammatizzano subito il dramma. E quindi hanno l’abitudine al gioco della vita, a sorridere. Non c'è nulla, non hanno nulla. La cosa più più più immediata che si fa con i bambini è di smitizzare i drammi. Si smitizza. Questo poi una materia che appartiene al Sud, una materia antica che viene dall'antica Grecia. Però questo è evidente, poi che la compagna che ho avuto nell'adolescenza scolastica, prima, nel senso scolastica vera, e poi nei 10 anni che sono stato con il Teatro Stabile di Catania, la mia adolescenza è stata accompagnata da persone che vanno da Ferro, da Randone, a Sciascia, a Camilleri, in un momento formativo di un ragazzo. Questo quindi, probabilmente in questo senso, sono stato molto aiutato. Probabilmente, ho avuto un papà operaio, una mamma, però, con, usando un’istintiva intelligenza alla libertà. Il concetto del rispetto, del tuo spazio, di chi sei. Tanto è vero che io, per esempio, è un fatto, quando io ero bambino, che a differenza degli altri, d’inverno, col buio, tutti i bambini soffrono a ritornare a casa. Hanno studiato nel pomeriggio e poi c’è il giocarello. Ed io ero un bambino che diceva: “Eh vabbè’ scurau, picchi avimm' a stare pe fozza fora” (Eh va bene, si è fatto buio, perché devo stare per forza fuori). Perché dentro c’era l’obbligo: “eh ciu dico a to patri, se non veni ti rumpu i iammi (glielo dico a tuo padre, se non vieni ti rompo le gambe). Cioè, cose drammatiche, abbiamo sempre questa cosa della Grecia, del dramma. Picchi non si capisci… che sta affacciato: Leo torna a casa che è tornato papà. No. “Leo a casa, vidi che ti rumpu i iammi” (Leo vieni a casa, vedi che ti rompo le gambe). Un senso di tragedia antico, incredibile. Quindi, il darsi, la generosità, capisco che poi è un luogo comune intorno all’attore per rispondere questo a lui. E io credo che poi ognuno deve rispondere per il piacere della vita e di quello che la vita trova, incontra, che si abbandona. Dicevo prima che è proprio questo che a me piace. È un viaggio. E quando vai a fare un viaggio, si va a farlo con serenità. Cioè, tu vai a fare un viaggio, sicuramente, come tutti, facci caso, se accade il piacere, non so di vedere uno spettacolo, di farsi una passeggiata nella propria città, sei un po’ trattenuta, in generale. Appena “si fora” (sei fuori – in giro) non ci cammini, una càvusa cutta, una càvusa longa, (una calza corta, una calza lunga), cioè ti senti più libera perché ti senti osservata nella tua città o ti sembra così. Io non ho mai vissuto da questo punto di vista. Mi è sempre piaciuto mettermi in discussione in maniera sana, parlare ad alta voce, sentire, misurarmi, propormi, capire cosa può essere positivo A e negativo B perché, in che modo, scrutare, grattare. Questo, per esempio, non l’ho mai fatto, un'occasione che Ottavio mi ha dato. Mi ha detto, guarda io - prima di iniziare le prove della struttura dello spettacolo Fantasmi, se vuoi, io sono qui. Ecco, non mi metto in discussione. Questo, tutto questo per rispondere anche a lui. Cioè, bisogna liberarsene, ci sono troppi luoghi, siamo troppo legati, siamo prigionieri di…..

Studente n.2:  C'è qualche dramma che Lei è riuscito a sdrammatizzare?

Leo Gullotta: Dramma personale? di famiglia?

Ottavio Rosati: No, dramma nel senso di fare una scena immaginaria: andare nel passato, vedere una persona o dirle qualcosa che non le abbiamo mai detto...

Studente n.2: 

Ottavio Rosati: ti ricordi lo psicodramma non deve essere storia a carattere problematico: Si possono fare, per esempio, degli psicodrammi facendo un viaggio nel passato, vedendo una persona o dicendo qualcosa che non si è detto

Ezio Donato: O anche comici

Leo Gullotta: Sì, è liberatoria

Ezio Donato: cioè, questa è una cosa che non si detto e che tutti pensano: che lo psicodramma sia una cosa lacrimevole, viscerale

Ottavio Rosati: no, no, no

Leo Gullotta: la dice la parola – psicodramma – è una cosa della psiche e poi c’è un dramma

Ezio Donato: dramma è nell’accezione inglese o anche greca, dramma, cioè azione.

Leo Gullotta: questa è la stessa cosa che accade, come scatto, diciamo formativo in Italia, non siamo molto per, se non negli ultimi anni, nel lavoro che ho fatto, la musica classica. Perché non si studia a “scola” (scuola) non si sa, in Italia, la musica non si studia. Fuori nelle altre nazioni, c'è il teatro, come materia, “ca non si studia pi nenti” (qui non si studia per niente). Quindi nel popolare il concetto scolastico qual è? Ormai la gente sente un pezzo di musica classica, subito, immediatamente dice: Matri! …….è stata sempre suonata in occasione di funerali di Stato. E quindi c’è sta cosa di Chiesa. E quindi il pezzo classico, meraviglioso, straordinario è collegato con una cosa; mi appena a gente senti – a proposito di quella parola psico-dramma – appena senti musica classica; no, musica classica … è immediata la cosa. Quindi bisogna stare attenti……

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